FILASTROCCA DELLE FRAZIONI
Ciuccuritte a Santa Gemma,
Ballatori a li Pretare
Calze mozze a Piedilama
Poche case alla Cammartina
A lu Burghe li ‘mbriache
in Arquata ‘i scellerate
scrozzacastagne i Trisungà
riccingule i Faetà
rubbacavalli ‘i Spelungà
magnapere i Collacchià
Zampestorte i Vezzanesi
e foricavicchia i Pescaresi.
Quando il Vettore mette il cappello
vendi la capra e compra il mantello
Quando il Vettore scopre la capa
vendi il mantello e compra la capra.
PROVERBI
– I tre animali non addomesticabili: il lupo, la palomba e il Capodacquaro.
– Quanne piove su Vitore, piglia la zappa e và al lavore…
Quanne piove a Capodacqua, piglia la zappa e scappa!
– Quando sona ‘u campanò, ‘nculo a la casa, ‘nculo au padrò!
– La rovina de la pecora è la guazza… la rovina dell’uomo la ragazza.
– Quando la capra va alla vigna, quello che fà la mamma fà la figlia!
– ‘A fame fà scappà u lupe da la tana.
– Vocca chiusa – nen c’entra mosche
– Quanne lu purche è satulle aremmotica lu trucche
– Dimme e damme dura n’anne, Damme e denghe dura sempre
– Quanne lu jalle canta a patuglie, se vede che lu timpe nn’é satuglie
(quando il gallo canta prima del tempo, si vede che il tempo non è ancora sazio)
– Triste la casa dove la allina canta e lu jalle feta!
– Abbi del tuo che non manca niente
– Quann’ lu att dorme lu surrece abballa
– Mbar de reccje sorde straccane cent campane!
– A lu più triste cà la meje cuccia!
– Tira l’asine do vò lu padrò
– Daje e daje, daje e daje, la cepolla è diventata aje
– Te se pozza magnà nu lupe vicine a fiume… cuscì magna e beva
– Ce vò do pe menà: une che li pija e n’andre che li dà
– Chi va a drmi co’ li cà, s’arrizza c’ li purgi.
– Tre donne e un att, mercat è fatt.
– La prima s’avvisa, la seconna se perdona, la terza se vastona.
– Chi c’ha la moglie bella sempre canta, chi c’ha pochi quattrì sempre riconta.
– Ci becchiamo a Settembre, quando l’uva è fatta e la ficura pende!
(ficura = frutto del fico)
– Quann tòna n’cuacc part chiove!
– Se vuoi che l’amicizia si mantenga, bisogna che una mano viene e che l’altra venga
– Se Gennare ne gennariea, Marze e Aprile rappareia
(Se a Gennaio non fà freddo, Marzo e Aprile rimetteranno a pari)
POESIE
ARQUATA
Questo poemetto fu segnalato quale uno dei dieci migliori lavori partecipanti al “Premio Machiavelli 1970”.
Ferdinando Alfonsi, nato in Arquata del Tronto, laureato in Letteratura Comparata, ha insegnato presso la “Fordham University” di New York.
Ha partecipato a vari concorsi di poesia, nazionali ed internazionali, sempre classificandosi tra i primi dieci e vincendo il primo premio nel concorso nazionale di poesia “Arturo Giovannitti” nel 1976. Collabora alle riviste “Ragioni critiche”, “Italica”, “Orpheus”, con articoli di critica letteraria.
Ad uno ad un si sono riaffacciati,
quasi salendo da una notte nera,
tanti ricordi trepidi, ammantati
di luce e di tristezza. Ne la sera
estiva luminosa scorre ancora
il Tronto nella valle, spumeggiante.
E mentre il canto lentamente accora
L’animo innamorato, o la festante
Musica porta il vento su dal Borgo
O da Faete, ascosa tra i castani,
van l’ombre scivolando in ogni gorgo
e dando ai boschi mille aspetti strani.
Notti di luna, notti fascinose
Per silenzio e per pace; il dolce incanto
S’effonde per le valli rugiadose,
degli usignoli assorte al vago canto,
e a quel dei grilli che perennemente
ripeton le lor note in successione,
mentre i chiù il tempo lamentosamente
scandiscono, e le ran fan bordone.
Ancor il sol nei morbidi mattini,
come carezza passa tra i capelli
degli alti monti e indora i grandi pini,
che fan corona ai nobili castelli.
Alta sula balzo sta la vecchia torre,
che sfidò per più secol le tempeste
e non permise all’ascolan di imporre
il suo dominio al valico rupestre.
Da secol, dicon, su la mezzanotte,
se il chiaro raggio della nuova luna
risplende sul castello, per le grotte
c’è un fremito, di gente che s’aduna
a festa; e come per le vaste sale
la musica risuona per le danze,
un angoscioso gemito prevale
su tutto e avvolge le merlate stanze,
alla stessa ora, sempre. È forse il vento
tra i pini e tra le crepe, o la raminga
cagna? No, il proprio amante in un lamento
Giovanna invoca prigionier solinga.
Ma se la notte è senza stelle e fonde
Son l’ombre, vagan luci balenanti
Sugli alti merli, e Cività risponde:
colloqui muti di infelici amanti.
L’umili case coi lor tetti rossi
S’addossano pel vago arduo clivo.
Sorrido o rimirarle, chè commossi
Ricordi premon quando ancor giulivo
Correvo spensierato per le strade,
ebbro, vociando, solo di trastulli,
risuonavan perfino le contrade
di Trisungo e Vezzano, dei fanciulli
gridi. O seduto sotto i larghi tigli,
il murmure ascoltavo dei torrenti,
che saliva dal basso, o i bisbigli
di vita tra le rame ognor frementi.
E quando il sole con baglior sanguigni
Dietro il Quarto scendea, la mente mia
S’empiva di fantasmi, ma benigni,
al batter lento dell’Ave Maria.
Chiacchiera solitaria la fontana
Su la piazzola che mi parve grande,
un giorno, o canta con sua voce arcana
che penetra il silenzio che s’espande
su ogni cosa. Chi sa se i gerani
di casa mia ancor dalla finestra
ammiccano amorosi ai lor lontani
fulvi fratel dell’umile ginestra!
La testa han, forse, reclinato, mesti.
Proteso le labbra, al partir mio,
come per dir: “Vogliamo che tu resti”,
col muto lungo palpito d’addio.
Chi sa se nel camin più arde il ciocco,
che s’accendea la notte di Natale,
prima che in Chiesa, al soffocato tocco,
muovesse ognuno sul candor nivale!
Presiedendo a quel rito la mia mamma,
mite e solenne, un senso di mistero
creava coll’accender quella fiamma,
come di vita e di perenne vero.
Lungo il torrente, tra le querce annose
E i salici piangenti, Camartina
giace. Le mandrie ancor per le boscose
chine escon lente al pascol la mattina,
e i lor muggiti l’eco ripercuote
di balza in balza. Quando il tuon rimbomba
tra le nere nubi per le cime immote,
brividiscon le cose, e il fragor romba
dell’avanzate rapida tempesta,
che batte lo scosceso arco montano
e tutta crepitar fa la foresta,
finchè si perde in borbottio lontano.
Ma se le nuvolette per l’azzurro
Vagan legger, qual petali di rosa,
sorride la montagna, tra il sussurro
di fogli e fonti, lietacome sposa,
e il contadino le impropizie zolle
rivolge; e il boscaiolo le betulle
abbatte; e avanza di sudore molle
il falciatore; e cantan le fanciulle.
Va ancora il pastorel con la sua greggia
Di miti agnelle per i vasti prati,
e il lungo suon de la zampogna echeggia
amico per gli spazi sconfinati,
quasi invitando le solinghe Fate,
– che, se la storia è vera, sul Vettore
vennero un giorno ad abitar, scacciate
dalle città a uscir sui prati in fiore.
Ma no, ché esse di notte, sotto un cielo
Di stelle, a Piedilama ed a Pretare
Avvolte vanno in risplendente velo,
spargendo sogni in ogni casolare.
Nel piccol Cimitero dorme ancora
All’ombra dei cipressi il fratel mio,
che apparve e sparve in una breve ora
di luce, ma non cadde nell’oblio,
ché pur ricordo il pallido visino
e le manine giunte e la candela,
che, vacillando, ardea a lui vicino.
L’anima sua, come bianca vela,
per l’infinito azzurro, silenziosa,
era partita. Dorme non lontano
Maria, dei miei primi anni affettuosa
Compagna. Tu, tenendomi per mano,
guidavi, accorta, i miei inesperti passi
per le scoscese vie e per gli incolti
spalti, tra i rovi e tra gli aguzzi sassi.
Ritorna. Oh! Quanti noti e cari volti
S’affollan nella notte palpitando
Muti. Per queste strade, le lor voci,
e questi campi risuonan, quando
muovevan lenti verso le lor croci.
Torna sui prati a rider la viola
Rifioriscon le siepi a primavera,
ma non un segno, mai, che consola
da chi discese nella terra nera.
Dov’è Masino, e Ida, e Caterina?
La verde foglia che si culla al vento
non è già quella che io stamattina
ho visto accartocciarsi sul cemento.
Ardon le stelle, tremule, nel fondo
delle limpide acque del torrente
giammai le stesse. Vive e passa al mondo
tal la fiumana dell’umana gente.
Vibra nel’aria l’eco degli squilli
della tromba che le albe verginali
salutava esplodendo sui tranquilli
tetti, tra un brividir subito d’ali.
Era Pietro. Sull’Ebro combattendo
cadde, della sua vita nel fulgore.
La madre, invano trepida attendendo,
per lui, amorosa, crebbe un rosso fiore.
Lassù a Spelonca ancor le vecchierelle
Sul limitare, con il fuso in mano
Filan, sedute: e sognan tra le stelle
Sognar ciò che bramar in vita invano:
carezzano una casa meno oscura,
con gli occhi spenti, ed un destino intriso
di minor pena; dopo tanto dura
vita per loro questo è il paradiso.
Sotto il ponte di Tufo giù si perde
In uno scroscio il timido ruscello,
mentre placido occhieggia in mezzo al verde
dei boschi, azzurro, il lago Scandarello,
in cui si specchian l’alte cime quete;
richiami e canti salgon dalle sponde
silenti, a tratti. Vanno senza mete
voli intrecciando rondini sull’onde.
Quante volte pensai oltre quei monti
Più ampio senso al viver mio donare,
dietro al sole morente nei tramonti
o all’acqua anela verso il vasto mare!
E un dì verso altri lidi desioso
andai, di sogni pieno e di chimere;
un vivere trovai più turbinoso,
ma spoglio, forse, delle gioie vere.
Vorrei, Arquata mia, ritornare
a bere alle tue limpide sorgenti,
sedermi sotto il tiglio, e ribeare
lo sguardo ai paesaggi tuoi ridenti.
(POESIA SENZA TITOLO)
Diego Pierpaoli, pittore e scultore di Arquata del Tronto, fondatore e promotore del “Gruppo Immanentista”, che ha anticipato le tendenze artistiche degli anni ’70 e ’80, è anche autore di varie opere sull’Immanentismo nonché fondatore del parco-museo “Il Museo d’Arte Immanente” e della casa-museo “In Arquata”, entrambi siti in Arquata del Tronto. Autore di poesie, tra le più belle ne abbiamo scelta una, ripresa dalla raccolta “A Tilde” (2005), dedicata al paese di Arquata.
Forse pe’l sorriso degli anziani
Colto a seguire dalla panca, in volo dolce,
il riso franco dei bambini in corsa sulla piazza,
il paese m’appare, d’improvviso, casa;
il lastricato nuovo una moquette lavanda;
la sua gente, poca, una famiglia sola.
Il campanile, un pendolo in salotto
E l’aquile di bronzo un gran cucù.
Buttati in alto, sull’armadio scuro, i giochi smessi:
l’usurata Rocca, ormai di cartapesta
e Giovanna la sua regina pazza
(una bambola di pezza dai begl’occhi fissi).
Sui prati grandi sta accosciato un cane grande
Di pelouche, il pelo raso, per la neve maculata
A partorire fate, prossimo alle nubi.